Renzo Guardenti, In forma di quadro. Note di iconografia teatrale
Iari Iovine, «Sinestesieonline».
L’indagine sull’iconografia teatrale è stata da sempre oggetto di studio di Renzo Guardenti, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo presso l’Università degli Studi di Firenze e direttore dell’Archivio di iconografia teatrale «Dionysos». L’argomento iconografico, tessuto connettivo imprescindibile nelle ricerche di ambito artistico-teatrale, trova ora nuovo sviluppo con la pubblicazione del volume In forma di quadro. Note di iconografia teatrale, edito da Cue Press. Il lavoro riordina una serie di contributi imperniati sui risultati di alcuni decenni di ricerca nel settore. Offrendosi, infatti, come un articolato compendio di saggi, per l’occasione attentamente ritagliati ed emendati, il volume assoda con un discorso organico e convincente il legame tra teatro e arti figurative, al fine di reiterarne la fondamentale valenza ricoperta dagli studi teatrali. Il percorso investigativo si snoda essenzialmente lungo tre linee portanti che comprendono: una analisi speculativa del documento iconografico, con il relativo impiego e approccio metodologico compiuto dagli studi storici; le raffigurazioni della Commedia dell’Arte, specie del versante francese, responsabili di aver influenzato il mondo culturale europeo instillando precisi canoni artistici (quali pose, atteggiamenti o costumi); l’indagine sulle fonti iconografiche dell’attore verificate in un arco temporale di tre secoli, dal Settecento al Novecento, e condensata in particolare sul profilo dell’attrice Sarah Bernhardt avanguardista, come diremmo oggi, nel campo del personal branding, l’arte di promuovere la propria immagine; concludendo con l’esplorazione degli assetti visivi delle prime regie di Luchino Visconti. Il volume è opportunamente corredato da immagini, allegate alla fine del testo, che si offrono come oggetto di confronto, analisi e riflessione sui temi enunciati.
Nel primo filone di ricerca confluiscono i capitoli iniziali (dal primo al terzo), intesi a rimarcare l’importanza delle immagini di teatro quali vettori indispensabili della natura visiva delle arti sceniche. Costituite da una duplice qualità che le connota sia come «monumenti», per la loro identità indipendente di dipinto, incisione o fotografia, che come «documenti», ossia fonti visive delle prassi sceniche e attoriche, tali immagini hanno il compito di tramandare la «memoria di forme artistiche». In una sinossi preliminare, Renzo Guardenti ricostruisce le traiettorie storiografiche attraversate dagli studiosi cimentatisi in questo campo di ricerca – tanto sterminato quanto multiforme – e relativo ai rapporti tra figurazione e scena. Dalle pionieristiche tesi di Émile Mâle, George Ridley Kernodle, agli studi di Erwin Panofsky ed Aby Warbung, nonché alle ricerche italiane di Cesare Molinari, Ludovico Zorzi, Maria Ines Aliverti o Elena Tamburini, l’autore sottolinea come ognuno di essi determini, seppur con prospettive, teorie e metodi di analisi dissimili, un punto di partenza essenziale ma, soprattutto, rivolto ad incentivare l’apertura verso nuovi orizzonti di indagine.
Il passaggio dalla scena o dal dramma, al quadro o a qualunque altra superficie artistica, può essere decifrato, a detta dell’autore, come «un vero e proprio atto di traduzione». A partire dal paragrafo intitolato Iconografia come traduzione prende avvio, infatti, un discorso pertinente alla percezione visiva che tiene conto di come essa muti a seconda dell’osservatore, puntando inevitabilmente l’attenzione sulle problematiche connesse alle correlazioni tra arti figurative e teatro, specie quando le prime reinterpretano un soggetto adattandosi ad un cambiamento complessivo dei giudizi della figurazione. A tal proposito, egli riporta alcuni esempi che alterano le caratteristiche percettive e il significato stesso di un soggetto riferendosi, in particolare, alla conversione (e dunque traduzione) di un’opera grafica, o pittorica, in quella di un’incisione; oppure riferisce episodi di percezione totalmente antitetica nell’osservatore, quando segnala il lavoro di artisti, come Claude Gillot o Huquier, che inglobano in un’unica immagine vari e consecutivi estratti della medesima scena, tecnica consueta nelle illustrazioni decorative delle edizioni drammaturgiche.
Rovesciando invece l’impostazione dell’assetto scena-quadro, l’autore mostra un particolare caso di «trasmutazione», che dal documento figurativo viene trasferito al palcoscenico. Ad essersi invischiato in questa peculiare forma di traduzione è ad esempio l’attore David Garrick, uno dei volti più ritratti nella seconda metà del Settecento che, come conseguenza alla divulgazione della propria immagine mediante le stampe, sperimenta un originale rapporto di riverbero: dalle raffigurazioni di sé egli tenta di estrapolare nuovi atteggiamenti da riprodurre sulla scena, innescando un processo di imitazione del ritratto che dalle stampe viene trapiantato alla scena, dunque in direzione diametralmente opposta ai precedenti esempi.
Nel mirino dell’indagine autoriale sull’iconografia convergono anche le riviste teatrali, nelle quali lo studioso riscontra una sorta di ostilità, capillare e variegata, nei confronti dei dossier visivi di pratiche sceniche. Descrivendo infatti alcune esperienze personali vissute in tale settore e le istanze paradossali a cui ha dovuto adattarsi, egli fornisce informazioni quantomeno utili e chiarificatrici per un lettore che vuole avvicinarsi agli studi iconografici di settore. Le contraddizioni riportate rivelano un atteggiamento iconoclastico di periodici importanti, di fatto ancora restii nel pubblicare liberamente immagini nei propri spazi. Ed è dopo una breve rassegna di riviste teatrali e delle loro diverse tipologie, che egli attesta quanto il comune denominatore che lega questi periodici, in modo più o meno co- sciente, sia la volontà di imprimere sulla carta «un’idea di teatro», motivo che pare scontato ma che, a ben guardare, esercita la possibilità di ampliare quelli che Ferdinando Taviani definiva «teatri-in-forma-di-libro». Valga per tutti l’esempio di «The Mask», celebre rivista ideata e redatta da Edward Gordon Craig, la quale viene tempestata di elementi decorativi tra le superfici tipografiche, presenta studi costumistici e scenografici nei propri fascicoli, ed esibisce spezzoni di disegni registici avvicinandosi, così facendo, ad un vero e proprio «model stage». Per di più, nel successivo quinto capitolo, viene fatta luce anche su una categoria spesso estromessa dall’indagine sul campo, quella degli almanacchi, decifrati dallo studioso come straordinarie risorse per la documentazione visiva di messe in scena dell’Ancien Théâtre Italien.
Più difficili da argomentare sono invece le icone dello spettacolo contemporaneo a cui viene dedicato il terzo capitolo. Con l’affermazione della nozione e della funzione di regia viene iniettata, come risaputo, una graduale ma massiccia dose di coefficiente visivo sulla scena novecentesca e, nel segnalare fenomeni iconografici inclini a mettere in crisi il concetto stesso di documentazione illustrativa, lo studioso annota una serie di esperienze teatrali che prendono le distanze dall’approccio mimetico-figurativo. L’uso spropositato di estensioni temporali o, all’opposto, le estreme decelerazioni di alcuni allestimenti (come gli espedienti scenici adoperati da Bob Wilson) e, in linea di principio, gli spettacoli aderenti a quel genere definito teatro-immagine, aprono la strada a nuovi sistemi di fruizione: «La disgregazione della tradizionale boîte scenica, la moltiplicazione dei punti di vista, la riformulazione dei rapporti spaziali tra evento e spettatore, la scomposizione e la frammentazione della diegesi, la dimensione figurale della scena e della manifestazione del corpo dell’attore/performer parcellizzano e rendono parziali anche i reperti visivi impedendo una ricomposizione, se non oggettiva, quantomeno unitaria del fenomeno cui si riferiscono». La questione innescata dallo studioso riguarda dunque, essenzialmente, la dimensione fenomenica, le labili impronte visive lasciate da questo tipo di rappresentazioni, quasi impossibili da ricostruire in un quadro unitario.
Il quarto capitolo viene invece destinato agli studi sull’iconografia d’attrice, argomento che muove inevitabilmente dalla forma teatrale della Commedia dell’Arte. Al di là delle già note paladine della sfera ritrattistica, quali Isabella Andreini o Virginia Ramponi (Florinda), due volti sedimentatisi in maniera mirabile e sostanziale nelle opere d’arte del periodo, esemplare è la serie di piccoli ritratti realizzati da Bernerd Picart, prova infrangibile – come sottolinea Renzo Guardenti – della cospicua presenza femminile nelle illustrazioni. Seppur contraddistinte da uno spiccato gusto ornamentale e da sguardi che svelano repressi istinti passionali, le donne dell’Ancien Théâtre Italien raffigurate nella serie si collocano, alla fine del Seicento, su di un livello equipollente a quello dei colleghi attori, dunque sul medesimo gradino occupato dal genere maschile. Si tratta tuttavia di un fenomeno destinato a subire, negli anni successivi, un marcato assottigliamento dovuto a molteplici fattori.
Il mito della Commedia Dell’Arte deve in gran parte la sua fortuna proprio ai contributi figurativi, le cui sedimentazioni nell’immaginario collettivo del tempo possono essere annoverate come un impulso trainante per la divulgazione del genere, specialmente per l’economia di mercato. Nell’attraversare il vastissimo repertorio iconografico, l’autore distingue la Commedia Dell’Arte come un autentico «modello epistemologico» in quanto riflette le ripercussioni scatenate e patite dall’intera gamma illustrativa, la resistenza di stilemi e fenomenologie in termini culturali ed estetici o le percezioni degli artisti, che spesso ne snaturano le copie reali. L’esempio più avvincente di alterazione d’immagine indicato è forse quello correlato alla maschera di Pulcinella. Costretto a subire una vera e propria destrutturazione della propria immagine, questo indiscutibile protagonista delle raffigurazioni settecentesche viene ritratto tanto in sfere domestiche e private, quanto in spazi asettici, completamente bianchi, che escludono anche il più minuto richiamo al teatro e alla teatralità; viceversa, denuncia l’autore, Pulcinella viene trasferito in un contesto talmente quotidiano che le più ordinarie azioni, del mangiare come del dormire, si arricchiscono di componenti criptiche ed imperscrutabili, generando di conseguenza sensazioni di sconcerto. Ma ad infrangere i tradizionali codici visivi è, più di tutti, il fenomeno della moltiplicazione dell’immagine, qualità inedita che non trova riscontri in altre maschere e si fa largo nei disegni del veneziano Giambattista Tiepolo, del figlio Giandomenico Tiepolo o del romano Pier Leone Ghezzi. Tali artisti inseriscono le varie sfaccettature della vita pulcinellesca in ambienti sospesi, «en plein air», dando spazio alla duplicazione del protagonista, il quale è ripreso in diversi punti del medesimo spazio ma in atteggiamenti diversi.
Associato all’ultimo ambito d’analisi è invece il modello iconografico attoriale che, separatosi dall’esperienza della Commedia Dell’Arte, viene impostato sul lasso temporale che da François Joseph Talma conduce ad Antonio Morrocchesi. Se in area francese Talma appare decisamente consapevole della portata promozionale delle immagini, instaurando un autentico mito iconografico volto a registrare l'evanescente arte recitativa su ‘carta’ – tramutandola in ‘monumento’ –, in territorio tedesco le raffigurazioni di August Wilhelm Iffland e Ludwig Devrient assumono la forma di documentario, mentre in Inghilterra il modello di Edmund Kean, e le sue indimenticabili pose, accrescono la tendenza della ritrattistica d’attore.
A finire invece in quell’ampio calderone che l’autore classifica come «macro-documento-iconografico» sono gli illimitati contributi visivi (dipinti, incisioni, fotografie, filmati) che hanno favorito la creazione della leggenda di una delle più grandi attrici europee del XIX secolo: Sarah Bernhardt. Ad essere esaminate sono soprattutto le impressioni, percepite da varie personalità artistiche, del potere seduttivo di un interprete. Consapevole delle potenzialità del proprio corpo, l’avvenente Bernhardt manifesta un’audacia spregiudicata dinanzi all’obiettivo, una sicurezza che la porta a divenire modello, per altre attrici, non solo recitativo bensì di femminilità e costume. Noto, pertanto, è il famoso stile «sarahbernardtesque» nel quale convergono anche i tratti privati e costumistici dell’artista che, in una costante commistione tra mondo attorico e mondo personale, attestano l’esigenza di non svincolare mai la donna dall’attrice teatrale per non scalfirne l’aura attrattiva. Ancora una volta è dimostrato come gli influssi annessi a prassi attoriche, o a stili personali di un performer, tratteggino un anello che congiunge il teatro alla vita in continua e vicendevole dipendenza. Esclusivo inoltre è l’approfondimento su quel «fil de l’image» che connette la Bernhardt alla pittrice francese Louise Abbéma, un tema che, vagliando i peculiari tagli compositivi o gli inusuali ed intriganti quadri che l’artista dedica all’attrice,stimola indubbiamente la curiosità e l’interesse del lettore.
Infine, le ultime riflessioni di Renzo Guardenti si dipanano alle linee di tendenza che hanno contraddistinto i primi allestimenti registici di Luchino Visconti e le intrinseche strutture visive. Oltre a ribadire il Leitmotiv viscontiano dell’ossessionante realismo,caratteristica ampiamente dibattuta dagli studi critici e che affiora specialmente in quell’«attenzione microscopica al dettaglio minuto» che investe anche l’apparato scenografico, l’autore segnala l’indispensabile ruolo che Visconti attribuisce all’attore, componente che acquisisce nuovo spessore giacché «generatore del complesso visivo degli spettacoli [...] elemento di raccordo tra la dimensione verbale e quella spaziale [e dunque scenografica]».
Nell’insieme il volume rinnova, in modo critico e ragionato, la necessità di rinvigorire il dibattito sul rapporto tra palcoscenico e raffigurazione, svelandone gli impulsi e gli effetti complementari. Le argomentazioni propongono quesiti e nuove prospettive d’indagine, al fine di affinare quell’osmosi tra teatro e arte figurativa, sottintesa e mai banale, che verificata smaschera la trasversalità che contraddistingue i due universi in ‘visioni’ ineludibili.